“Lo scopo di una Biennale è quello di stanare gli artisti che stanno sviluppando un’arte interessante ora per ora, al margine di scuole, trend e collegamenti” Ralph Rugoff, curatore de la 58° Bienal de Arte de Venecia.
Conclusasi la kermesse flamenco di canto, ballo e suono, non rimane che elencare i migliori ricordi fra i tanti spettacoli che hanno rallegrato le magiche 25 giornate sivigliane della 20°. Biennale, in cui ogni programma si proponeva come una scatola di sorprese: nel senso che dove ci si aspettava uno scontato successo clamoroso magari questo si avverava, invece si rimaneva a bocca aperta vedendo o sentendo altre performance da interpreti meno conosciuti.
Fra le novità, tendenzialmente tante, predominava la ricerca a partire dalle radici di quest’Arte fino ai tempi passati più recenti, come motore di ispirazione per coreografi, ballerini, cantanti e musicisti, specialmente gli abili chitarristi.
Per quanto riguarda il teatro-danza contemporaneo si conferma un punto di riferimento per le nuove promesse, come ‘El salon de baile’, forse fra i più promettenti, in cui si distinse complessivamente una potente Tamara Lòpez. Il ballo flamenco di questa Biennale si confermò ancora pieno di protagonismo da parte degli artisti, che a volte trascinava il pubblico, a volte no.
Anche se l’autentica star di questa Biennale è stato il canto, emanato dalle donne, come La Tremendita o Rosalìa, e non solo fra le più giovani, ma anche fra le più mature, come Lole Montoya, accompagnata dal pianoforte di Evora, uno dei concerti più rilevanti della Biennale 2018. Da parte loro, gli uomini si sono aggiunti a questa intenzione rinnovatrice con delle autentiche proposte, come Hodierno di David Lagos o Soleà sola di Tomàs de Perrate.
La chitarra di quei musicisti che hanno saputo strappare tutta la sua anima ha riempito delle serate alquanto commoventi: da parte di Tomatito con un omaggio a Camaròn lungo un delicato concerto molto apprezzato, mentre quelli di Jerez, Diego del Morao e Antonio Rey, siglarono uno dei grandi spettacoli di questa Biennale, che merita di essere considerata un vero successo.
A seguito, elenchiamo gli appuntamenti più trascendentali di questa 20 Biennale di Flamenco di Siviglia: da Israel Galvàn a Marìa Pagés; de Rafaela Carrasco agli omaggi al Lebrijano o Manolo Sanlùcar; da Felipe Benìtez Reyes a Gualberto; da Rosalìa a Eva la Yerbabuena; o da Ana Morales al Niño de Elche; e molto ancora, con fusioni incredibilmente riuscite come quella col Giappone.
Si fa utile la memoria della nascita del Flamenco, poco conosciuto fuori dalla Spagna.
Allora, dobbiamo ritornare molto indietro nei tempi per trovare le radici di quest’Arte tramandata lungo i secoli specialmente nell’Andalusia, la più grande regione, nel meridione spagnolo. Si assicura che la denominazione ‘Flamenco’ deriva da una corruzione dell’arabo Falag-Mengu o Felag-Mengu = Contadino profugo, espulso dalla Spagna. Ma non fu così per tutti, alcuni restarono e si mescolarono alle tribù gitane, già oggetto di gravi leggi oppressive, e da quell’unione segreta nascerà l’“Ay!”, il grido di dolore contro la persecuzione, che prende la sua fisionomia sotto il nome di Flamenco, risultato da molti elementi. E’ la terra andalusa dove più fedelmente sono mescolate e conservate le melodie dalle pure cadenze orientali.
Qualcuno ha paragonato certe forme del canto “jondo” (dal Jom-tob, giorno di festa in ebraico) con alcuni canti sinagogali e l’abitudine di “jalear” (animare) a cantanti e ballerini proviene dalla parola ebrea “jalel” … o il olé, dall’arabo “ualah” (per Dio!) come una esaltazione del cantante. Si ricorda che furono gli ebrei sefarditi (da Sefarad = Spagna) l’elemento di coesione fra gli abitanti del paese e gli arabi.
L’influsso arabo non snaturò la musica indigena andalusa, che invece consolidò apportandole una forma tonale definita e ornando il suo severo profilo con melisme orientali. Sebbene il loro impiego costante fu preislamico. Nonostante ciò, la chitarra moresca, fu citata da Alfonso X (XIII sec.) data la sua idoneità per l’arpeggio flamenco, proclamandosi il suo strumento più idoneo.
Ma questo per il canto e il suono, ma cosa si può affermare invece per la danza? Per il primo ballo andaluso furono le “puellae gaditane”. A questo riguardo, conviene iniziare dall’origine della danza nel I secolo.
Un ballo documentato dagli esperti dell’epoca, che ora ci permettono di ricostruirlo. Infatti, gli scrittori latini del I secolo definivano come “puellae gaditane” delle ragazze andaluse che, insieme ad altre provenienti da diversi paesi più lontani, specialmente dalla Siria e dall’Egitto, erano portate a Roma per l’intrattenimento nei banchetti e feste dell’élite cittadina. Il nome designato obbediva al porto di Cadice dove venivano imbarcate.
Storici e poeti, fra cui il grande Marziale che abbonda nei dati, ci facilitano la scia di queste ragazze e del loro arrivo a Roma con dei crotali rumorosi e le loro agili contorsioni. Molto apprezzate a Roma (uno status symbol da offrire agli ospiti), il loro apogeo culminerà nell’impero.
Non sono queste citazioni latine le prime tramandate sul traffico di ballerine andaluse, gli storici greci già scrivevano di come, cent’anni prima della nostra era, un commerciante partendo da Cadice trasportò quel singolare carico di ballerine betiche per farle esibire nelle coste africane.
E ora il Flamenco, Patrimonio dell’Umanità, viene rinforzato con sapienti progetti come la Biennale di Flamenco che si celebra puntualmente ogni due anni a Siviglia.
Carmen del Vando Blanco