Fino al 3 marzo 2019 nel Chiostro-Giardino della GAM di Roma ci sono in mostra le sculture-installazione di Antonio Fraddosio dal titolo ”Antonio Fraddosio- Le tute d’acciaio” chiaramente dedicato quelle che gli operai dell’ILVA dovrebbero indossare per non morire di tumore. E’ curata da Claudio Crescentini e Davide Simongini.
Promossa da Roma Capitale Assessorato alla Crescita Culturale Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali con organizzazione Zetema Progetto Cultura e catalogo La Casa Usher, è un’installazione- mostra pensata per gli appositi spazi del giardino-chiostro della GAM. Oltre alla bellezza indubitabile delle opere, questa mostra etica è un gridio d’allarme, ancorché ve ne fosse bisogno, dei danni che questa struttura industriale ha fatto e fa alla salute degli operai e per inciso al territorio circostante, com’è noto a tutti.
L’artista pugliese che nato a Barletta nel 1951 e lavora a Tuscania, ha iniziato come architetto e scenografo, e si dedica ora interamente alla scultura e pittura. Le sue opere hanno quasi sempre risvolti sociali e si presentano per cicli. Queste della GAM fanno parte del ciclo Quel che resta dello sviluppo che l’artista, riferendosi alle sue origini pugliesi e ricordando la visione della giovinezza, dichiara: “Arrivando da Martina Franca, Dall’alto della collina che degrada verso il mare Taranto non c’era più. Vidi un inferno di fuoco e di fumo. La più grande acciaieria d’Europa aveva mangiato la città, la campagna e aveva bevuto il mare”.
Le dieci sculture in lamiera che compongono l’installazione, contorte e lacerate, sono appoggiate a cassoni e rappresentano le tute che dovrebbero proteggere gli operai dell’ILVA dai tumori, depositate al termine dei turni di lavoro e prima di andare alla doccia, in una specie di camera di compensazione. E’ pur vero che il lavoro nel Sud Italia manca da moltissimi anni e non si è mai fatto nulla per rendere quello che già c’è accettabile per la salute, ma questo non giustifica che si possa ulteriormente continuare a far morire la gente.
Come scrive Gabriele Simongini nel suo testo in catalogo “in questi sudari di ferro resta l’impronta di corpi umani sofferenti, c’è il senso della morte e della distruzione ma sopravvive una sorta di speranza affidata all’arte, alle sue possibilità catartiche. Nelle lamiere ciascuna diversa dall’altra affiorano spesso i colori velenosi, mortali ispirati al manto di ruggine, alla polvere presente, rossastra, dalle sfumature marroni e nere, che avvolge e soffoca la città colpendo soprattutto il rione Tamburi, a ridosso dell’ILVA”.
Il catalogo oltre a quanto inerente l’esposizione, contiene anche il testo del noto giurista e costituzionalista Michele Ainis e dell’operaio e scrittore Giuse Alemanno nonchè alcuni scatti del fotografo Chistian Mantuano.
Una mostra importante, bella, che fa riflettere.
Emilia Dodi