Creatore di blockbuster e ammaliatore del pubblico generalista negli anni ‘80, ma anche cineasta che si è mosso spesso, nella sua carriera, sul confine tra il cinema live action e l’animazione -si ricordi l’hit Chi ha incastrato Roger Rabbit nel 1989, ma anche gli esperimenti di Polar Express e A Christmas Carol nel decennio scorso – Robert Zemeckis ha voluto ribadire la sua voglia di sperimentare e mescolare i linguaggi con questo Benvenuti a Marwen.
Un film, quello interpretato da Steve Carell, che mescola attori in carne e ossa e animazione a passo uno, ispirato alla vita dell’artista Mark Hogancamp, già oggetto del premiato documentario del 2010 Marwencol.
Hogancamp, vittima di un’aggressione omofoba che gli provocò la perdita di gran parte della memoria, creò un fittizio villaggio belga in scala ridotta, posto nel contesto della Seconda Guerra Mondiale e popolato da bambole che incarnavano alter ego dell’uomo e dei suoi conoscenti. Le vicende dell’immaginario villaggio di Marwen, in cui l’incarnazione in scala ridotta di Mark deve guardarsi tanto dagli assalti dei nazisti, quanto da una misteriosa strega che gli impedisce di avvicinarsi ad altre donne, divengono oggetto di una serie di fotografie, che l’uomo dovrà presentare presso una mostra dedicata. Ma per Mark si avvicina, parallelamente, anche la data del processo contro i suoi aguzzini, mentre nella sua mente le vicende reali e quelle di Marwen finiscono sempre più spesso per sovrapporsi…
Regista ultrasessantenne, ormai da oltre un trentennio stabilmente inserito nella macchina produttiva hollywoodiana, non si può dire che a Zemeckis manchino il coraggio e la voglia di mettersi in gioco. Quando, dopo le sperimentazioni animate del decennio scorso, il regista pareva infatti aver ritrovato una comoda collocazione nell’ambito del blockbuster d’autore (che lo aveva riaccolto con titoli come The Wire e Allied – Un’ombra nascosta), un film come questo Benvenuti a Marwen arriva di fatto a sparigliare le carte.
Opera “piccola” e sperimentale con la patina e la forza produttiva di un blockbuster, fiaba contemporanea che vuole mettere in scena (fuori e dentro) le creazioni di una mente offesa, il film gioca disinvoltamente con i registri, passando senza soluzione di continuità dalla realtà al mondo fantastico immaginato dal protagonista, facendone collidere consapevolmente i toni.
Non è stata ben accolta, oltreoceano, questa nuova creazione di Zemeckis, dal carattere forse troppo ardito (e contemporaneamente troppo spudorato nel mettere in scena il suo immaginario) laddove ci si aspettava una più standardizzata e rassicurante favola da proporre al pubblico natalizio. Parte delle critiche si sono appuntate sul supposto tradimento della vicenda originale, con l’introduzione di una (platonica) componente romantica, incentrata sul personaggio della vicina col volto di Leslie Mann.
Rilievi che a nostro giudizio non centrano il bersaglio, se si considera che l’interesse principale del regista è quello di illuminare i meccanismi della creazione e la sua inesausta capacità di esprimersi (anche laddove uno dei canali – in questo caso quello grafico – ne venga menomato), nonché il suo rapporto con la memoria e il suo potenziale “vampirizzante” e di dipendenza.
Proprio il tema della dipendenza, nelle sue varie declinazioni, torna in modo insistente (e circolare) lungo tutta la pellicola: dalla dipendenza innocua del protagonista per le scarpe femminili, feticismo che provoca indirettamente l’aggressione di cui è vittima, a quella per gli psicofarmaci, fantasticamente incarnata dal personaggio della strega, che continua a riportare in vita i soldati nazisti e impedisce all’alter ego di Mark di costruirsi una relazione sentimentale. Su tutto, quella dipendenza (feconda ma pericolosa) per la creazione artistica, capace di diventare patologica laddove non sia contemperata dalla capacità dell’individuo di affrontare i propri fantasmi: un processo che coinvolgerà tanto il Mark in carne ed ossa, quanto il suo alter ego di Marwen.
Zemeckis dirige il film utilizzando un mirabile montaggio di sequenze live action e animate, affidandosi a un bravissimo e dolente Steve Carrell (il cui volto ricorda a tratti quello del miglior Robin Williams), citando e autocitando il suo stesso immaginario (Ritorno al futuro su tutti). Lo fa evitando, inoltre, le pastoie del buonismo: senza anticiparne gli sviluppi, non è difficile scorgere il fondo amaro, dolcemente disilluso, di una vicenda che riflette a lungo sulla diversità del suo protagonista, non celandone mai (ed è un bene) i lati più oscuri.
Marco Minniti