Dopo che il primo Creed – Nato per combattere, tre anni fa, era stato accolto molto positivamente da pubblico e critica, che lo considerarono una sorta di “nuovo inizio” per l’ultradecennale franchise di Rocky, giunge ora in sala l’inevitabile sequel. Un’operazione che acquista un senso particolare, questo Creed II, e non solo per il chiacchierato ritorno di Dolph Lundgren nei panni dello storico avversario di Rocky, Ivan Drago: secondo quanto dichiarato dallo stesso Sylvester Stallone, infatti, questa sarà l’ultima incarnazione cinematografica del suo storico personaggio.
Laddove il primo Creed ammiccava soprattutto ai fans del Rocky del 1976, riproponendone la struttura nella parabola di un pugile giovane, talentuoso quanto problematico, questo seguito allarga in un certo senso lo sguardo: è infatti la saga nel suo complesso, e in particolare il quarto episodio del 1985, ad essere richiamata alla memoria, col riferimento diretto al match in cui Apollo Creed perse la vita per mano del sovietico Ivan Drago, e alla successiva “vendetta” ad opera del personaggio di Stallone.
Un Ivan Drago invecchiato, impoverito e abbandonato da sua moglie – personaggio che fa qui un breve ritorno in scena, col volto di Brigitte Nielsen – prepara con stile inflessibile e quasi militaresco suo figlio Viktor, talentuoso pugile deciso a sfondare nel mondo della boxe professionistica. L’obiettivo: sfidare Adonis Creed, campione dei pesi massimi e pupillo di Rocky, e vendicare così l’onta subita, di fronte al suo stesso pubblico, 33 anni prima. Ma Rocky, ancora preda dei sensi di colpa per non aver fermato l’incontro in cui Apollo perse la vita, rifiuta di allenare Adonis per il match: la squadra che fu vincente viene così spezzata.
C’è in un certo senso ancora più carne al fuoco, in questo Creed II, rispetto a quanta ce ne fosse nel suo predecessore: Rocky deve fare i conti coi fantasmi del passato, con la ferita ancora aperta della perdita di un amico, col suo rispecchiarsi negli occhi, e nel desiderio di rivalsa, del giovane Adonis. C’è parallelamente il sottotesto familiare, la nascita di una figlia per lo stesso Adonis, la difficile conciliazione tra la pericolosa vita del pugile e una appena raggiunta serenità familiare e borghese. C’è una connotazione ancora più autunnale, in un Rocky ormai pronto a farsi da parte, e a lasciare che questo suo figlio putativo cammini sulle sue gambe.
Creed II soffre di una prevedibilità di fondo, nella sua stessa idea, che inevitabilmente ne inficia la freschezza, almeno laddove lo si paragoni al suo predecessore. Tuttavia, l’intensità della prova dello stesso Stallone – interprete che negli anni ha acquisito un’aura dolente che ne intensifica la resa – e l’ottima performance fisica e recitativa di Michael B. Jordan, garantiscono una buona tenuta spettacolare per il film di Steven Caple Jr. Proprio il giovane regista, subentrato a Ryan Coogler, dirige il tutto con mano sicura, calcando sui toni epici solo laddove necessario, e dando un’ottima resa visiva e “fisica” alle scene degli incontri.
Più che in un confronto Stallone/Lundgren più dimesso del previsto (e ciò è un bene), il limite principale di Creed II sta in un tratteggio troppo schematico dei due villain, padre e figlio: specie la figura del giovane Viktor, cresciuto all’ombra di una figura paterna ingombrante, e incapace di distaccarsi dal destino scritto di una ultradecennale faida, mostra potenzialità che la sceneggiatura non coglie del tutto.
Non si può, tuttavia, negare al film la consueta sincerità di fondo, frutto della generosità dell’ideatore e “demiurgo” Stallone: il suo Rocky saluta i fans con la chiusura ideale di un cerchio, senza retoriche pietistiche, ma con la consapevolezza tranquilla dello scorrere del tempo. Fuori e dentro lo schermo.
Marco Minniti