Era ormai da circa un ventennio, a partire dall’interessamento per il soggetto di James Cameron nei primi anni 2000, che il progetto di questo Alita – Angelo della battaglia circolava negli studios hollywoodiani. Un progetto che il regista canadese aveva fortemente voluto dopo essersi innamorato del manga di Yukito Kishiro – a sua volta segnalato dall’amico Guillermo del Toro – e che lo stesso Cameron aveva a più riprese posticipato: ciò, sia per le difficoltà pratiche e produttive legate alle dimensioni del progetto, sia per la contemporanea venuta alla luce di Avatar, a tutt’oggi l’ultima opera che ha visto Cameron in cabina di regia.
Dopo un lunghissimo stand-by, Alita ha potuto infine vedere la luce grazie all’interessamento di Robert Rodriguez, a cui Cameron ha passato il testimone della regia. La trama, ambientata nell’anno 2563, vede il mondo reduce da una catastrofica guerra, con una inaccessibile città sospesa, detta Zalem, che sovrasta la Iron City dei bassifondi. Qui, il dottor Ito trova i resti del cyborg Alita, volto femminile e mente umana priva di memoria: l’essere mostra da subito i sentimenti di una teenager, insieme a vaghi flash di un passato legato al conflitto. Alita capirà presto di essere in realtà una letale macchina da combattimento, capace di portare scompiglio nei precari equilibri sociali della città…
È da subito evidente, a partire dalle scelte scenografiche e da un avvolgente e immersivo 3D, la filiazione “cameroniana” di questo Alita – Angelo della battaglia. I temi dell’identità e della memoria, del corpo e di un’anima/avatar immateriale eppure dolorosamente concreta, di una tecnologia che produce mostri che si autogenerano, divenendo capricciosi e imperscrutabili fautori delle sorti del mondo, sono gli stessi che il regista ha toccato in tutta la sua carriera, dai due Terminator fino al già citato Avatar. Temi che si mescolano qui, con un racconto che vede in primo piano il percorso di scoperta di sé di un’adolescente/cyborg priva di memoria.
È legittimo, anche se un po’ ozioso, domandarsi cosa sarebbe stato di un progetto come quello di Alita – Angelo della battaglia, se Cameron fosse rimasto in cabina di regia. Diciamo ciò non tanto perché Rodriguez non sia in grado di maneggiare i registri da sci-fi intimamente filosofica e politica di cui la storia è impregnata; quanto perché quegli stessi registri sembrano esprimersi nel film solo a sprazzi, probabile risultato di una sceneggiatura che deve aver subito, nel corso degli anni, più di un rimaneggiamento. Nelle sue circa due ore di durata, il film presenta in effetti buchi e passaggi oscuri difficili da giustificare altrimenti.
Inizia come la più classica delle fiabe futuristiche, il film di Rodriguez, delineando un rapporto padre/figlia sui generis tra lo scienziato col volto di Christoph Waltz e la giovane cyborg interpretata – col supporto della CGI – da Rosa Salazar. Poi, parallelamente alla poco convincente love story della protagonista col giovane cacciatore di taglie col volto di Keean Johnson, il film sviluppa una sorta di intreccio noir che vede al centro l’oscura figura di Nova, vero manovratore occulto di un’organizzazione criminale che ha ramificazioni sull’intero territorio di Iron City.
Quando Alita inizia a scoprire il suo reale potenziale, frutto dei ricordi che lentamente riaffiorano, il film sembra quasi dimenticarsi tutte le sue altre componenti: lascia oscure le motivazioni di gran parte dei personaggi – tra questi quello, sprecatissimo, della ex moglie dello scienziato, interpretata da Jennifer Connelly -, introducendo un gruppo di villani privi di spessore e coerenza, e mettendo quasi “il pilota automatico” sull’azione, e su uno sviluppo drammatico a cui manca il supporto di una narrazione armonica e coerente. Da questo punto in poi, si segue la trama nei suoi macro-snodi, ma si rinuncia ad approfondirne i dettagli, nonché ad interessarsi alle sorti dei personaggi.
Visivamente sontuoso, non privo di ammalianti suggestioni – frutto, in gran parte, del materiale narrativo di partenza – ma scritto in modo scolastico e superficiale, Alita – Angelo della battaglia lascia inesorabilmente l’amaro in bocca, sia per il potenziale sprecato della storia, sia per una travagliata, lunghissima genesi, che avrebbe potuto dare origine a un altro prodotto.
La conclusione del film lascia la porta volutamente aperta per un sequel, nell’evidente auspicio di dare il via a un nuovo franchise: franchise che tuttavia, dati i non esaltanti risultati del film al botteghino statunitense, sembra tutt’altro che certo. Noi, da par nostro, continueremo a rimpiangere – sempre un po’ oziosamente – un film solo ipotizzato, che non ha mai potuto vedere la luce.
Marco Minniti