Cineasta specializzato nell’horror giovanile, regista nel 2018 del fiacco Insidious: The Last Key, Adam Robitel resta fedele al suo target di riferimento in questo Escape Room. Il regista americano cerca qui di fondere i brividi in stile Saw – L’enigmista con una struttura che occhieggi il filone young adult, in vista di un nuovo, possibile franchise: per far ciò, mette insieme un cast di volti noti al pubblico più giovane del grande e piccolo schermo, tra cui spiccano Logan Miller (Manuale scout per l’apocalisse zombie) e Deborah Ann Woll (le serie Daredevil e The Punisher).
Il plot, che muove dai giochi di logica live action che hanno da poco preso piede anche in Italia, è basilare: sei individui, dopo aver risolto un puzzle che viene loro recapitato a casa, si garantiscono un biglietto per il complesso di escape room della Minos, una sequenza di stanze chiuse dalla quale si esce solo dopo aver risolto un enigma. Il premio finale sarà di diecimila dollari. I sei scopriranno presto che il prezzo per il non superamento delle prove è la morte: inoltre, la loro selezione, in questo gioco per la sopravvivenza, si rivelerà meno casuale del previsto.
Ancora una volta, come in Ouija e in Obbligo o verità?, l’horror flirta quindi con la dimensione del gioco, rendendone mortali le conseguenze. Come nei due esempi sopra citati, comunque, in Escape Room la dimensione ludica da cui il progetto muove, resta tale anche sullo schermo: gli enigmi e le prove a cui i sei personaggi vengono sottoposti assumono raramente una qualche valenza drammaturgica; si gioca, insomma, mentre la curiosità dello spettatore è stimolata più che altro, di volta in volta, dalle modalità della prossima – inevitabile – dipartita.
Lontano, comunque, dal ragionamento sullo sguardo, e sulla natura voyeuristica del ruolo di spettatore, di un film come Quella casa nel bosco, Escape Room limita i quantitativi di sangue, nell’ottica di un prodotto rivolto soprattutto agli spettatori più giovani; le prove affrontate dai sei protagonisti sono fantasiose, spesso più fisiche che logiche, ma la rappresentazione della morte resta sempre ben al di qua del dettaglio violento e gore. Un limite, quest’ultimo, piuttosto importante per un prodotto che sul body count, più che su un intreccio coerente, sembra puntare molte delle sue carte.
Parente alla lontana della sci-fi orrorifica di The Cube, teoricamente vicino alla saga di Saw per la costruzione degli enigmi – mutuata a sua volta dall’universo videoludico – il film di Adam Robitel inanella qualche buona sequenza (tra le varie stanze, daremmo la nostra preferenza a quella che riproduce un singolare bar capovolto); ma si rivela inesorabilmente debole laddove dovrebbe spingere sulla cattiveria – anche grafica – dell’intreccio, non riuscendo parimenti a dare una definizione dei personaggi che vada oltre un fastidioso schematismo.
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Le prove e le morti di Escape Room si affastellano in modo corretto e indolore, ma i background dei sei protagonisti sono davvero troppo basilari – così come troppo debole è il loro collegamento con l’intreccio – per attivare una qualche identificazione; la costruzione logica del tutto, e quella interna di molte sequenze, scricchiolano pericolosamente in più di un passaggio. Il pubblico d’oltreoceano sembra comunque aver apprezzato, rendendo più concreta la messa in cantiere di un sequel: il potenziale – pur effimero – del soggetto, rende d’altronde tutt’altro che inverosimile l’avvio di un franchise, nel segno di nuovi, rassicuranti e “ludici” brividi.
Marco Minniti