Tra i veri e propri topoi dei film horror, che si ripresentano puntualmente a prescindere dalle mode di volta avvicendatesi nel genere, ci sono tanto quello della possessione, variamente declinata, quanto quello della figura del bambino quale fonte di inquietudine e vettore del sovrannaturale. Ha provato a unire le due cose il regista Nicholas McCarthy, già impostosi all’attenzione del pubblico con due film di discreto successo – The Pact e Oltre il male, datati rispettivamente 2012 e 2014 – e ora al timone di regia di questo The Prodigy – Il figlio del male.
La trama è incentrata sulla figura del piccolo Miles, bambino straordinariamente dotato, nato con una rara peculiarità genetica (l’eterocromia, ovvero gli occhi di colore diverso). Durante la sua crescita, Miles inizia presto a manifestare problemi comportamentali, aggredendo i compagni di classe e assumendo spesso atteggiamenti oppositivi e violenti. Uno dei medici da cui John e Sarah portano il bambino fornisce la sua spiegazione: Miles è in realtà la reincarnazione di Edward Scarcka, maniaco omicida ucciso contemporaneamente alla sua nascita. Lo spirito di Scarcka, albergante in Miles, dev’essere fermato prima che assorba completamente l’anima del bambino.
Mette subito le carte in tavola, The Prodigy – Il figlio del male, togliendo nel prologo qualsiasi dubbio circa la natura della sua trama: le immagini degli ultimi momenti di vita di Scarcka, alternate a quelle del parto di Sarah, rivelano in modo inequivocabile il perimetro all’interno del quale il racconto si muoverà. Le macchie di sangue sul corpo dell’omicida, rispecchiate da quelle del bambino appena nato, ribadiscono il concetto, semmai qualche spettatore avesse ancora dei dubbi: lo spirito di Scarcka è trasmigrato nel corpo di Miles al momento della sua nascita, per completare la sua opera.
Con queste premesse, e con un intreccio di cui vengono da subito rivelate le basi, è abbastanza difficile riuscire a stupire lo spettatore, che – forte anche di una competenza accumulata in decenni di pellicole simili – indovina abbastanza facilmente gli sviluppi della trama. Il vecchio tema della possessione viene qui sovrapposto – in modo un po’ incerto, a tratti goffo -, con quello della reincarnazione, prefigurando nel corpo del protagonista la lotta tra un’anima “originale”, quella nata col bambino, e una “antica”, che vuole prenderne definitivamente possesso.
Un dualismo, quest’ultimo, poco evidente sul volto del giovane protagonista, espresso col vecchio armamentario di sguardi cupi e apparizioni improvvise, crudeltà gratuite – nella fattispecie verso il cane di famiglia –, violenze incontrollate alternate a momenti di apparente ravvedimento. La natura perturbante della figura infantile, il misto di innocenza e inquietudine che il genere aveva sfruttato così efficacemente in passato, viene qui replicato nel modo più risaputo ed esteriore, senza la costruzione di una tensione che ne sostenga gli sviluppi.
La sceneggiatura inanella passaggi scarsamente credibili – la subitanea accettazione della teoria della reincarnazione, espressa perlopiù da un uomo di scienza – e veri e propri errori, tra cui spiccano armi lasciate in automobile alla mercè di un bambino pericoloso, per avviarsi a una conclusione tutt’altro che imprevedibile. La regia, piuttosto stanca, non va molto oltre il salto sulla sedia, con lo sfruttamento – pedissequo, derivativo – della figura del bambino assassino; mettendo tra parentesi, altresì, l’aggressione del Male nei confronti di una tranquillità familiare borghese che possiamo qui solo intuire.
Derivativo e balbettante nel suo svolgimento, incapace di suscitare quell’inquietudine – espressa nella dialettica tra innocenza e morbosità – che da sempre il filone punta ad esprimere, The Prodigy – Il figlio del male si configura come un prodotto anonimo; testimone di una fase di stasi, a livello creativo e artistico, che caratterizza un po’ tutto l’horror occidentale. L’utilizzo del tema della reincarnazione, in sé non disprezzabile, all’interno di una tessitura orrorifica, necessitava certo di un’altra mano, e di una diversa capacità di scrittura, per risultare davvero funzionale.
Marco Minniti