Dopo Il diritto di contare, uscito nel 2016, il cinema americano torna a interrogarsi sui temi della discriminazione di genere nella storia della società statunitense. Se il film di Theodore Melfi mescolava l’argomento a quello – sempre caldo e attuale – delle problematiche razziali, questo Una giusta causa si concentra sullo spazio riservato alla donna nel corpo sociale americano, sugli stereotipi di genere e sulla messa in discussione dei ruoli. Per farlo, racconta la storia reale di Ruth Bader Ginsburg, avvocatessa, magistrata, e fiera attivista per la parità e i diritti delle donne.
Il film di Mimi Leder copre un’ampia fase della vita e della carriera della Ginsburg: dal suo ingresso alla Harvard Law School a metà degli anni ‘50 – una delle 9 donne in una classe di circa 500 uomini – al primo caso importante a inizio anni ‘70. In quest’ultimo, per un apparente paradosso, la Ginsburg si trovò a rappresentare un uomo, lo scapolo Charles Moritz, che chiedeva una detrazione fiscale per le cure riservate a sua madre invalida: detrazione che una legge federale riservava solo alle donne, considerate “naturalmente” deputate all’assistenza. Una legge basata quindi su uno stereotipo di genere, che l’avvocatessa si proponeva qui di dichiarare incostituzionale.
La regista, finora dedicatasi soprattutto ai blockbuster d’azione, qui al suo esordio in un biopic, si affida in massima parte alla sceneggiatura scritta da Daniel Stiepleman – nipote della Ginsburg e mente dietro il progetto – che ricostruisce con dovizia di particolari il caso patrocinato dall’avvocatessa. Un taglio squisitamente cronachistico, quello dato al film, che tende a sacrificare un po’ il privato del personaggio – e il rapporto con suo marito, a sua volta avvocato civilista – in favore del meccanismo da thriller giudiziario, culminato con la sequenza finale in aula, caricata – giustamente – di una forte valenza simbolica.
In questo senso, Una giusta causa – discutibile adattamento del titolo originale On the Basis of Sex – è forse più legal drama che biopic, in virtù di una costruzione narrativa che usa il percorso del personaggio come un mero strumento, per concentrarsi sull’episodio della sua carriera che sceglie di ritrarre. Il prologo, pur abbastanza esteso a livello di minutaggio, che racconta la formazione del personaggio e i suoi primi passi nel mondo accademico e giudiziario, sembra affrontato come un semplice contorno; poco “pesante” dal punto di vista narrativo, e più teso a presentare i personaggi e il contesto in cui si muovono.
Un contesto, quest’ultimo, in piena evoluzione – dalle lotte per la parità degli anni ‘50, ai più globali movimenti di massa dei ‘70 – che il film coglie con sufficiente chiarezza e puntualità; non distaccandosi mai, tuttavia, da un anonimo e un po’ scialbo taglio descrittivo. L’evoluzione del caso giudiziario è narrata secondo le classiche tappe del genere, con i momenti più emotivamente pregnanti posti nei punti giusti – compresa la sequenza dell’udienza e la prevedibilmente intensa arringa finale: tutto corretto, ma abbastanza privo d’anima, raramente capace di far emergere la complessità – umana prima che politica – del personaggio interpretato da Felicity Jones.
E, parlando di interpreti, spiace un po’ che un’attrice del calibro di Kathy Bates sia qui sostanzialmente sciupata, in un ruolo certo sottodimensionato rispetto al potenziale tanto dell’interprete, quanto del personaggio: ma anche la sua apparizione risulta, in fondo, coerente con l’idea del film, che vuole essere cronaca civile e politica prima che racconto cinematografico. Una cronaca che, comunque, la sceneggiatura tiene intelligentemente al di qua dei toni declamatori, riuscendo a forzarne la resa solo quel tanto che basta da renderla efficace sullo schermo. Un’efficacia innegabile, specie in riferimento all’ultima parte del film, ma complessivamente un po’ effimera.
Marco Minniti