Milano. Esattamente cinquant’anni fa, all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana a Milano, il 12 dicembre, una bomba esplodeva causando la morte di 17 persone e il ferimento di oltre 88 tra clienti e impiegati.
È considerato il primo atto terroristico di quella che fu poi definita la “strategia della tensione”, una drammatica stagione di attentati e stragi che portò l’Italia sull’orlo del colpo di stato. Per questa vile azione nessuno ha pagato e nessuno più sconterà un solo giorno di galera. Chiediamo a Vito Bruschini, autore de La Strage – Il Romanzo di Piazza Fontana edito dalla Newton Compton in questi giorni nelle librerie, perché non è stata fatta giustizia e com’è possibile che gli autori dell’attentato siano ancora a piede libero.
«A differenza di quello che si possa pensare, una verità processuale, dopo 36 anni di procedimenti, alla fine è riuscita a emergere dalle sabbie mobili delle procure che si sono rimpallate negli anni lo scomodo processo», dice Bruschini. «I numerosi giudizi si sono conclusi nel 2005 con la definitiva sentenza della Cassazione che deliberò che a organizzare e compiere materialmente l’eccidio alla banca dell’Agricoltura fu la cellula fascista padovana di Ordine nuovo e che Franco Freda e Giovanni Ventura ne furono i diretti responsabili. I due neofascisti non poterono però essere più processati perché assolti nel 1987 nel secondo grado di giudizio. La magistratura in definitiva non soltanto non è riuscita a far scontare una pena agli esecutori della strage, ma non ha saputo dare neppure un volto ai mandanti dell’eccidio».
La strage del 12 dicembre arriva dopo una lunga sequenza di attentati dove i neofascisti padovani non hanno scrupoli a coinvolgere ignari e innocenti cittadini. Fanno brillare i loro esplosivi in luoghi e ambienti affollati perché lo scopo è quello di creare paura, di generare sgomento nella popolazione. Il loro obiettivo è quello di spingere la gente e i politici a chiedere leggi speciali e magari anche la sospensione della democrazia, in cambio di sicurezza e ordine.
In quel drammatico 1969 esplodono bombe all’università di Padova (15 aprile); alla stazione e alla Fiera di Milano (il 25 aprile), dove provocano una decina di feriti. Vengono rinvenute bombe nei tribunali di Roma, Torino e Milano (il 12 maggio e il 24 luglio), mentre nella notte dell’8 agosto vengono collocati dieci ordigni nelle toilette e negli scompartimenti di altrettanti treni che stanno portando gli italiani nei luoghi delle vacanze.
Otto bombe scoppiano e due fanno cilecca. Per fortuna non ci scappa il morto, ma 20 viaggiatori rimarranno feriti più o meno gravemente. Da quella notte gli italiani hanno paura a salire su un treno. Si diffida di chiunque entri in uno scompartimento, lasciando una valigia, per poi allontanarsi, magari per recarsi alla toilette.
Quest’atmosfera di insicurezza, di timore per sé e i propri cari è il risultato che gli attentatori volevano raggiungere? È questa, la cosiddetta “strategia della tensione? Chiediamo ancora a Vito Bruschini.
«È il quotidiano inglese The Observer a parlare per la prima volta di “strategia della tensione” e lo fa il 7 dicembre, cinque giorni prima della strage», ci spiega Vito Bruschini. «Lo fa perché i suoi redattori sono entrati in possesso di documenti segreti dell’Mi5 che fanno apertamente riferimento a una strategia del governo americano per fermare l’avanzata delle forze comuniste nei paesi del mediterraneo, mediante una serie di atti terroristici organizzati per favorire l’avvento di dittature militari, un po’ come già era avvenuto un paio di anni prima in Grecia favorendo l’avvento dei colonnelli golpisti.
Ma questo non si doveva ancora sapere, ecco perché da subito le indagini degli inquirenti furono indirizzate sulla pista anarchica. Subito dopo la strage vennero arrestati decine di anarchici, Pietro Valpreda fu uno di questi e così anche il povero Giuseppe Pinelli. Tutti furono poi assolti. Pinelli morì cadendo dal quarto piano della questura milanese con tutte le polemiche che il caso provocò».
Come sappiamo bene, la verità ha faticato a imporsi, anche se sin dai primi giorni onesti investigatori e irreprensibili testimoni orientarono l’attenzione verso la cellula nera responsabile dell’eccidio.
A questo punto, vorremmo ricordare due “eroi borghesi”, che furono travolti da un affare più grande di loro. Il primo è il commissario capo della squadra mobile di Padova, Pasquale Juliano che, subito dopo l’attentato all’università della sua città, il 15 aprile, indirizzò i suoi sospetti sul gruppo che faceva capo al fondatore di Ordine nuovo, Pino Rauti e ai suoi accoliti: Carlo Maria Maggi, Carlo Digilio, Delfo Zorzi, Freda e Ventura.
Juliano stava per individuare l’arsenale di armi e ordigni del gruppo fascista, prova inconfutabile che erano loro gli artefici degli attentati di quell’anno, quando improvvisamente dal ministero degli Interni gli arrivò la lettera di trasferimento a Ruvo di Puglia. L’inchiesta gli venne così scippata e naturalmente finì per arenarsi.
Ma i guai per il nostro commissario non finirono lì perché i fascisti lo accusarono di aver costruito false prove contro di loro. Per dieci anni Juliano dovette difendersi nei vari gradi di giudizio da quelle accuse infamanti, finché nel 1979, non arrivò la sentenza definitiva che lo scagionò completamente dalle calunnie degli ordinovisti. Ma nel frattempo la sua vita privata e la sua carriera andarono in frantumi.
L’altro “eroe” si chiama Guido Lorenzon. Oggi è un signore di 78 anni. Cinquant’anni fa era amico di Ventura il quale, il giorno dopo la strage, gli confessò il coinvolgimento della loro cellula nei fatti di piazza Fontana. Ventura gli fece quella dichiarazione perché voleva arruolarlo tra le loro fila. Ma Lorenzon, sconvolto dalla confessione, si rivolse a un avvocato che subito lo indirizzò al giudice Giancarlo Stiz, tra i primi a indagare sul terrorismo nero. Le dichiarazioni di Lorenzon però non vennero ritenute attendibili e anche quella volta la pista si arenò ancor prima di prendere consistenza. Lorenzon, con quella testimonianza si rovinò la vita. Venne oltraggiato e deriso dai suoi stessi compagni. Poté riscattarsi soltanto nel 2005, con la sentenza definitiva della Cassazione che ristabiliva la verità storica della responsabilità degli ordinovisti negli attentati, esattamente come lui aveva dichiarato sin dal giorno successivo alla strage.
Si dice che la verità corra su sentieri molto accidentati. Come si è arrivati alla sentenza della Cassazione e che senso ha ricordare ancora oggi quella strage? Chiediamo a Bruschini. «Con la scoperta, alla fine degli anni Novanta, di un deposito sulla via Appia di oltre centocinquantamila documenti non protocollati e ‘nascosti’ dal famigerato Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno, gestito da Federico Umberto d’Amato, si è arrivati alla consapevolezza che gli attentati, che hanno caratterizzato gli anni della strategia della tensione, non erano stati pilotati dagli anarchici e dai gruppi extraparlamentari di sinistra, ma da un potente gruppo di orientamento nazifascista che si muoveva con la copertura di funzionari del ministero degli Interni, con il supporto di alcuni apparati dei servizi segreti (che avevano nell’Agente Zeta del SID, Guido Giannettini il suo uomo di punta) e di uomini politici timorosi di una svolta comunista, tutti al riparo dell’ombrello della CIA.
Infine il senso di ricordare quella che è stata definita ‘la madre di tutte le stragi’, è innanzitutto quello di restituire giustizia ai morti e agli invalidi provocati dalla bomba, e poi per mantenere viva una memoria storica, che è alla base di ogni democrazia che per essere matura non deve aver paura della verità e tanto meno delle colpe e degli eventuali errori dei propri rappresentanti».
Salvatore Scirè