Il 4 marzo, al Teatro Anfitrione ha debuttato solo per due sere causa coronavirus, l’ultimo, esilarante lavoro di cui Pietro Romano, beniamino del pubblico romano, ultimo paladino della romanità, che firma soggetto, sceneggiatura e regia, de Il solito ignoto. E’ una pièce di straordinaria valenza comica nel rispetto della tradizione stilistica della Commedia dell’Arte, alla quale l’opera di Romano si ispira. Visum l’ha intervistato.
Pietro, parliamo di questo spettacolo. Un titolo ingombrante. Non le pare?
“In realtà, la storia originale desiderava portare con sé il soffio vitale di un cinema indimenticabile, tuttavia il soggetto non ha nulla a che vedere con lo storico film. Tutto nasce dal bisogno di rappresentare, attraverso lo stile introspettivo che da tempo, ormai, segna le mie commedie, categorie umane che stanno dovunque, visibili in ogni angolo del mondo. Di fatto – spiega a Visum – un inno alla normalità umana, a caratteri, sentimenti, atteggiamenti della gente comune, con l’obiettivo di far riflettere proprio su quanto si dia per scontato. Il tutto espresso in chiave comica, perché ridere e far ridere rimane, a mio avviso, il vero ossigeno della vita”.
Può rivelare ai lettori di Leggo la trama?
“E’ la storia di una benestante coppia qualunque, vittima di una routine che sbiadisce, ormai da tempo, la quotidianità. Azioni, casualità, fatti cuciti tra loro e sui personaggi determineranno una piccola vittoria umana: non permettere all’ovvio che produce noia e che conduce alla ricerca spasmodica compulsiva dell’assurdo di avere la meglio. Il supervisore artistico, come sempre, è Roma: la ricerca dei suoni dialettali, allo scopo di offrire l’analisi purista di una lingua che va protetta dal morbo contemporaneo dell’appiattimento della parola – che di per sé rischia di cadere in disuso a favore di improbabili neologismi – diventa stile di scrittura, prima, chicca di recitazione, poi”.
Con lei in scena ci sono altri attori?
“Il numero degli attori è cresciuto a dismisura negli ultimi decenni. Io miro sempre alla scelta della qualità. So che le mie regie sono impegnative anche nella logica del tempo: per questo ho sempre bisogno di attori che siano disposti ad investire con me, perché mi piace ogni forma di cura registica, dai dettagli a quegli elementi anche più apparentemente più insignificanti. Salgono sulla mia giostra, questa volta, Marina Vitolo, Pierre Bresolin e Alessandra Cosimato, colleghi, attori che stimo moltissimo”.
Pietro Romano: nel nome già un destino artistico, o una casualità? Come nasce questa intuizione nei confronti della romanità?
“Nasce per caso, come tutte le storie d’amore. Ho sempre amato profondamente la mia città, ma non immaginavo che addirittura avrei assunto la responsabilità della conservazione del dialetto, unendovi la mia passione storica, quella che fin da bambino connotava persino i miei giochi, per il teatro. Cominciai a calcare le tavole che non avevo ancora 12 anni, prima al Teatro dell’Opera, poi dovunque ne avessi l’opportunità. Determinante fu l’incontro con il Maestro Alfiero Alfieri, nel 1997, con il quale cominciai un vero percorso artistico, imparando a conoscere la storia della commedia dialettale, supportato dal grande Maestro del dialetto romanesco e della cultura romana, Renato Merlino. Entrambi scomparsi da poco, hanno lasciato in me un segno indelebile, artistico, culturale e affettivo”.
Ma lei è anche figlio d’arte. Quanto ha inciso questa, invece, di responsabilità?
“Senza dubbio, moltissimo. I miei genitori entrambi cantanti lirici, mi hanno trasmesso non solo passione e conoscenza che sono davvero requisiti imprescindibili per una carriera come la nostra, ma il coraggio di affrontare questo ‘mestiere’, consapevole dei rischi che sono altissimi, senza che il timore della condizione mettesse mai in discussione il ‘se’ continuare o mollare”.
Il suo curriculum vanta titolo impegnati, da Goldoni a Molière, ai classici. Come avviene questo curioso binomio tra teatro italiano e il suo dialetto?
“Penso ci sia un’esigenza culturale, legata alla passione e alla curiosità di lanciarmi in esperimenti sempre nuovi e stimolanti, proposte alternative astute dalle quali attingere senza sentirne il peso. Difficilmente oggi un ragazzo acquisterebbe un testo di Molière per leggerlo e forse nemmeno il biglietto per vederlo in teatro Eppure l’idea della trasposizione in dialetto ha riscosso un successo straordinario, che ha sorpreso anche me”.
La sua carriera è passata anche attraverso la Commedia Musicale
“Un grandissimo amore: Garinei & Giovannini, le loro opere, le loro firme, il loro modo di rappresentare la nostra cultura teatrale fin da bambino mi stregavano. Sognavo di essere Don Silvestro, Rugantino e in parte il sogno si è realizzato. La Commedia Musicale è il genere che più ci racconta, che meglio parla della nostra anima artistica. Ho avuto la fortuna di interpretare Aggiungi un posto a tavola, I Sette Re di Roma, e soprattutto, in più di un’occasione, di essere diretto dal Maestro Gino Landi, un’altra eccellenza della nostra storia teatrale e televisiva. Anche la sua è una scuola ineguagliabile, dove l’arte si respira, si assorbe, si impara davvero”.
Il suo spettacolo migliore?
“Il prossimo”.
Giancarlo Leone