Una Catania contemporanea e nerissima come la sua pietra lavica del porto e delle strade, “di un nero luminescente, vivo, quasi melodioso, percorso da una leggera venatura di blu”, è la protagonista del romanzo noir d’esordio di Gaudenzio Schillaci. La scoperta del cadavere di un uomo tanto misterioso quanto affascinante apre uno squarcio su una realtà fatta di rimandi e aspettative, silenzi e urla soffocate, emozioni represse e bisogno d’amore. L’autore costruisce intorno alla figura del commissario Davide Bovio una storia che investiga i sentimenti e dà valore e dignità alle parole.
Con Bovio, Cristina Selleri e l’ispettore Bonanno, Schillaci scava nel lato oscuro e ricerca quel nero che è vittima, testimone e anche detective.
Attraverso la figura di Bovio, pigro, disilluso, che ascolta la musica urban ed è attratto da Cristina, e quella opposta di Gerri Santiloro, la vittima, l’autore racconta l’incomunicabilità e l’importanza della scrittura come salvezza dall’assenza e dalla solitudine.
“La contaminazione è tutto. Un po’ come un viaggio in macchina: il fine ultimo è partire da A e arrivare a B ma il piacere vero non sta nell’arrivare, sta in tutto quello che c’è intorno al viaggio. Ricordo ancora le musicassette di mio padre durante certe gite fuori porta, che facevo da bambino ma non ricordo dove andavamo. Allo stesso modo, delle regole di un genere non me ne importa niente, del trovare un assassino in una storia non me ne può fregare di meno: a me piace raccontare un pezzo di vita di qualcuno, le mutazioni a cui va incontro, i turbamenti che deve sopportare, la musica che ascolta, il cinema che lo ha influenzato”.
“Insomma, raccontare quello che lo contamina. In questo caso, quel qualcuno è stato il Commissario Bovio, e gli omaggi seminati nel romanzo nascono in funzione del personaggio: non avrebbe avuto senso che Bovio omaggiasse Šostakovič perché semplicemente non fa parte del suo orizzonte mentale. Molto più sincero omaggiare Tomas Milian nei panni di Er Monnezza, o il rap di Neffa o quello dei Co’Sang”.
“Mi ha sempre affascinato il mito del Giano Bifronte, il dio con due facce, una rivolta al passato e una al futuro, e penso che l’essere umano sia così, ovvero la fusione di quello che appare e quello che è. Tutto ha una doppia natura e nei miei personaggi ho tentato proprio di raccontare le differenze tra quello che sono e quello che gli altri percepiscono di loro. Pertanto, è stato poi naturale portare il concetto del doppio anche in quella cosa brutta brutta che si chiama ‘trama’ e di cui in un romanzo pare ancora non si riesca a fare a meno”.
“Scritto in un’altra epoca e da un’altra penna avrebbe potuto essere uno dei “vinti” di certe novelle verghiane; scritto da me, invece, è venuto fuori un personaggio in bilico tra “Il Lercio” di Irvine Welsh, certe figure di sfondo nei romanzi di Houellebecq e il Lando Buzzanca de “L’arbitro”. Bovio è un uomo che affronta le asperità della vita con cinismo, un uomo arido ma ancora capace di sorprendersi, nel bene e nel male”.
Scrittore ma anche lettore, chi sono i tuoi autori di riferimento?
“Scrittore ma soprattutto lettore, e i già citati Welsh e Houellebecq di certo sono tra le mie letture predilette. Uomini duri, scrittori pesanti come piombo ma che meglio di tanti altri hanno spaccato il mondo e ne hanno raccontato un frammento.
Poi, non posso non citare Fulvio Abbate (ndr, si, parlo proprio di quel Fulvio Abbate che oggi imperversa sulle reti Mediaset rinchiuso dentro la casa del Grande Fratello, una scelta che ha fatto rabbrividire l’intellighenzia del nostro Paese ma che personalmente trovo di un romanticismo stoico, eroico), David Foster Wallace, José Saramago, Leonardo Sciascia, tutti autori che magari non riecheggiano nella mia scrittura ma che mi hanno allevato facendomi abbeverare alla fonte del pensiero critico”.
“Alla prima sono legato per questioni meramente genetiche: ci sono nato, ci sono cresciuto, l’ho vissuta a tutte le velocità di viaggio, da povero e da ricco, da primo della classe a ultimo tra gli ultimi, nei palazzi di gran classe e nei palazzi di spaccio. Alla seconda, invece, ho scelto di legarmi quando ho sentito diventare opprimente il cordone ombelicale che mi legava al mio quartierino, alle case, alla piazza, alla strada. Catania è mia madre, mi ha dato al mondo, mi ha accolto, mi ha protetto e mi opprime quando siamo vicini perché pensa ancora, che io sia il bambino che andava in giro con il cappellino con la visiera all’indietro, Bologna è invece la donna che ho scelto. Magari tra me e lei finirà bene e ci ameremo per sempre, magari finirà in un divorzio traumatico, di quelli in cui ci si rinfaccia le mancanze, ci si tira i piatti addosso e ci si urla contro che non esisti, o magari resteremo amici per sempre, chi lo sa. Come tutte le storie d’amore, si potrà raccontare solo a posteriori”.
“‘SiciliaNiura’ è quello che succede quando quattro amici hanno la stessa passione. Come capita quando un manipolo di trentenni con la passione del calcetto, decide di riunirsi in una società e iscriversi ai campionati provinciali nonostante l’età e le pance incipienti, noi che a calcetto siamo negati (tranne Rosario) abbiamo la passione per la scrittura e allora invece di lavorare insieme nel sottobosco delle chat su Whatsapp abbiamo deciso di legittimare questo modus operandi dandogli un nome e una progettualità comune. L’idea è piaciuta, tanto, ad Alfio Grasso, padre di Algra Editore, e da questa comunione di intenti è nata la collana ‘SiciliaNiura’, che vede me e gli altri tre manigoldi con cui mi accompagno (Sebastiano Ambra, Alberto Minnella e Rosario Russo) in veste di co-direttori e che si pone come obiettivo quella di svincolarsi dall’immagine di una Sicilia da serie tv Rai per raccontarla in chiave noir”.
Cristina Marra