Gianluca Antoni è un psicologo e psicoterapeuta, che si diletta con la scrittura. Ha scritto Cassonetti e Il peso specifico dell’amore, pubblicati da Italic peQuod. Con Io non ti lascio solo nel 2017 ha vinto il torneo letterario IoScrittore e poi il premio Romics. Visum lo ha incontrato.
Il tuo romanzo è un giallo spalmato in un lungo periodo di tempo. Iniziamo dalla struttura narrativa?
“Il romanzo comincia con il ritrovamento di due diari in un’intercapedine durante la ristrutturazione della cascina di Guelfo Tabacci. I diari appartengono a Filo e Rullo, due ragazzini di 12 anni – spiega lo scrittore – amici per la pelle, che 20 anni prima hanno fatto irruzione in quella casa perché convinti che Guelfo Tabacci, un montanaro scorbutico, tenesse prigioniero Birillo, il cane di Filo scappato qualche mese prima nei boschi a causa di un temporale. I diari – continua Antoni – la raccontano loro avventura, collegata a quello che è successo 30 anni prima del ritrovamento dei diari, ossia la misteriosa scomparsa del figlio piccolo di Guelfo Tabacci. Il maresciallo De Benedittis, al capo di quelle indagini, nutre il sospetto e la convinzione che Guelfo abbia ucciso il figlio. Quei diari, a lui recapitati, nascondono la verità per lungo tempo celata. Il racconto si muove quindi su questi tre piani temporali: oggi, 20 anni prima, 30 anni prima”.
E’ anche un romanzo di formazione, com’è stato raccontare il dolore e anche il senso di paura e smarrimento con gli occhi e il cuore di un bambino?
“Raccontare il mondo con gli occhi di un bambino è molto affascinante. Nell’infanzia il mondo è classificato in categorie dicotomiche: bianco o nero, tutto o niente, sempre o mai, giusto o sbagliato, ecc. La percezione della realtà viene semplificata e impedisce di cogliere la complessità e le sfumature. Attraverso questa visione – sottolinea Antoni – il bambino cerca di spiegarsi e di affrontare il dolore e la paura: si trova ad essere ingenuo e saggio, pauroso e intrepido, razionale ed emotivo. Ti fa conoscere gli estremi con cui è possibile affrontare i propri vissuti emotivi ma anche un coraggio che spesso gli adulti non hanno perso per proteggersi dal dolore”.
Il cane diventa il motivo della ricerca che si espande a quella interiore di tutti i personaggi, come ti è nata l’idea di Birillo?
“Le grande sfide della vita nascondo da una motivazione profonda e importante. Filo ha perso la madre e Birillo è stato l’ultimo regalo da lei ricevuto prima della morte. Ritrovare Birillo diventa fondamentale per ritrovare anche la madre ed elaborare il lutto. Il legame bambino cane è un legame di amore incondizionato, come quello tra la madre e il figlio. Attraverso Birillo volevo raccontare quanto l’amore e la fedeltà possano permetterci di affrontare delle sfide più grandi di noi”.
Birillo e Diablo, possono essere considerati due personaggi in uno? Due espressioni di un unico personaggio?
“Sì. Diablo è il dobermann di Guelfo Tabacci, un cane feroce, ma estremamente pauroso quando il suo padrone alza la voce. Possono rappresentare la parte buona e quella cattiva dello stesso essere, ma, come poi si scoprirà, la cattiveria di Diablo non è la sua vera natura, ma un aspetto che ha dovuto sviluppare per fedeltà al suo padrone”.
Nel romanzo emerge la figura del padre, padri mancati, assenti o troppo presenti?
“La figura del padre in questo romanzo è ambivalente. Nutre un grande amore nei confronti di Filo, ma allo stesso tempo fa fatica ad entrare in empatia con lui e aiutarlo a superare il dolore per la perdita della madre. È una figura in cui emerge la sua umanità, con i suoi pregi e i suoi difetti. Trafitto anche lui dal dolore per la perdita della moglie amata, si sente impotente e non riesce ad essere di supporto al figlio: vuole aiutarlo, ma lo farà nel modo sbagliato. Ma come scopriremo poi, in ogni caso non lo lascia mai solo”.
Con Rullo e Filo dai voce ai bambini, ti sei calato nel loro mondo e anche nel loro linguaggio, mi racconti la tua full immersion?
“Per immergermi nel loro mondo sono entrato in contatto con la mia parte infantile. Sono entrato con tutto me stesso nella loro avventura, sono stato di nuovo un ragazzino di 12 anni, ho parlato la loro lingua, ho provato le loro emozioni e pensato nel loro modo. Penso che mi abbia aiutato anche il fatto di aver iniziato a scrivere il romanzo appena diventato padre e il pensiero di scrivere una storia per i miei figli ha alimentato la mia immaginazione e la mia creatività”.
Il bosco riporta al mondo delle favole con natura e misteri, attraverso il bosco racconti anche la paura?
“ll romanzo può essere anche definito come un favola noir dove ogni aspetto e ogni personaggio può avere un significato simbolico. Il bosco certamente è il luogo delle nostre paure interiori, Guelfo rappresenta i nostri ‘mostri’ interiori, Filo la nostra parte razionale, Rullo quella emotiva, Amélie quella bambina, Scacco quella pazzoide e via così. Ogni parte di noi è una risorsa fondamentale per affrontare il dolore e la paura e crescere in modo sano ed equilibrato. Ho cercato di rendere il racconto quando più fiabesco possibile togliendo ogni riferimento temporale o ambientale specifico in modo che sia il lettore a costruire ed entrare in contatto con il proprio modo interiore”.
La verità, conoscerla fa tanta paura?
“Dipende dal tipo di verità. Quando si tratta di una verità dolorosa, l’impatto può essere traumatico, ma se ben gestito porta notevoli benefici nel medio e lungo termine, ed è sicuramente la scelta migliore. Quando viene celata a lungo, se poi viene scoperta, può minare seriamente la fiducia nel rapporto; e quando la fiducia viene tradita è molto difficile ricostruirla”.
Cristina Marra