Intervista a Laura Testaverde traduttrice di La mia vita con i gatti di Morishita Noriko, Con questo nromanzo Morishita Noriko torna in libreria dopo il successo del long seller “Ogni giorno è un buon giorno” e il Giappone della quotidianità e dei gesti semplici e intensi, diventa il racconto quasi diaristico della sua esperienza casalinga con una famiglia di gattini.
Intervista con Laura Testaverde profonda conoscitrice della letteratura giapponese
Intervista con Laura Testaverde profonda conoscitrice della letteratura giapponese, dottore di ricerca in Civiltà dell’Asia estremo -orientale all’università L’Orientale di Napoli e traduttrice di diversi autori, tra i quali Mishima Yukio, e del precedente romanzo di Morishita. Grazie a lei scopriamo di più sull’autrice e sulla letteratura giapponese che tanto appassionano i lettori.
“Da “Ogni giorno è un buon giorno” a “La mia vita con i gatti” semplicità e concretezza emergono dalla scrittura nitida e diretta di Morishita Noriko, sei d’accordo? E quali secondo te sono i tratti peculiari che contraddistinguono l’autrice?
Come lei stessa racconta in entrambe le sue opere comparse in Italia, Morishita nasce come pubblicista, e i suoi lavori sono spesso più vicini al saggio o al reportage che al romanzo. Parla di sé, della sua vita, con un tono molto simile a quello che userebbe per un articolo di costume su un viaggio alle terme o su una festa tradizionale, colorando il tutto con una venatura di humour e un tocco di poesia quando serve”. “Credo, poi, che sia evidente l’intento didascalico che caratterizza i suoi scritti: in ‘Ogni giorno è un buon giorno’, oltre a spiegare i modi e i significati della cerimonia del tè, racconta ai giovani (ma anche ai meno giovani che non hanno avuto la sua stessa esperienza), l’importanza che possono rivestire nella formazione e nella crescita di una persona pratiche in apparenza criptiche come le arti tradizionali e la ripetizione di azioni che, di primo acchito, non solo non ci sembrano così importanti, ma anzi, a volte ci paiono addirittura inutilmente complicate. Parla, insomma, di una crescita lenta culminante in un’epifania il cui effetto sulla vita della scrittrice-protagonista ha, nel suo piccolo mondo, una portata enorme”.
Un romanzo dall’intento didascalico
“La mia vita con i gatti” può essere letto anche come un romanzo di formazione alla vita e alla riscoperta di se stessi?
“Anche in La mia vita con i gatti’ mi sembra sia chiaro l’intento didascalico. La mia impressione è che sia riproposto in una scala lievemente minore. Nel senso che, mentre in ‘Ogni giorno è un buon giorno’ Morishita parla di un processo di trasformazione centrale nella sua crescita personale, racconta un’epifania che cambia totalmente il suo approccio all’esistenza, il messaggio di ‘La mia vita con i gatti’ è forse meno impegnativo: il concetto fondamentale è che si può sempre cambiare opinione, e che se un giorno ami i cani, magari in futuro potrai amare i gatti”.
La traduzione è sempre una sfida, un arricchimento
Com’è stato il tuo approccio con Morishita Noriko? E’ sempre facile entrare in sintonia con l’autore che si traduce?
“Se per ‘entrare in sintonia’ si intende arrivare a far coincidere il proprio punto di vista con quello dello scrittore, direi di no: non credo sia possibile affermare di riuscire sempre farlo. In alcuni casi bisogna limitarsi a fare di tutto per capire senza pregiudizi anche ciò che non si condivide appieno. È questione di professionalità. In ogni caso, per quel che mi riguarda, la traduzione è sempre una sfida e un importante arricchimento. Sin da quando, molti anni fa, decisi di studiare lingue, sapevo che il motivo scatenante della mia scelta era, semplicemente, il desiderio di cercare di capire”.
“Nel caso di Morishita Noriko, l’opera più complessa da tradurre è stata la prima, perché mi ha posto davanti a una serie di scelte non scontate. Per dirne una, ho deciso di non tradurre numerosi termini relativi all’arte della cerimonia del tè, per non banalizzare le descrizioni, ma anche per non tradire l’intento didascalico dell’opera, tesa evidentemente a istruire i lettori giapponesi e, a maggior ragione, i non giapponesi, non solo sulle scoperte cui l’antica pratica ha portato la scrittrice, ma anche sui modi, sul senso di ciascuna tecnica, sui legami con la tradizione e sugli stessi vocaboli con cui oggetti e tecniche sono chiamati. Lasciare i termini principali in giapponese, infatti, mi ha consentito di aggiungere in glossario spiegazioni relative all’origine, all’uso e alla forma degli oggetti cui si riferiscono. Senza contare che traducendo chawan come ‘tazza’ o hishaku come ‘mestolo’ avrei suggerito al lettore immagini familiari, molto diverse da quelle descritte nel romanzo”.
Cristina Marra